venerdì 15 aprile 2011

L'Università dopo la legge "Gelmini". Se il buon giorno si vede dal mattino.


Maurizio Matteuzzi


Come è ben noto, la legge 240/10 "Gelmini", dopo avere suscitato le reazioni che si sanno nel suo travagliato iter, è definitivamente entrata in vigore lo scorso 29 gennaio. Al di là di quelle che il Presidente Napolitano ha generosamente chiamato "criticità", che hanno fino ad ora riscosso una inattuata promessa di pronta correzione, e delle vere e proprie contraddizioni esplicite, come quella rilevata anche in aula al Senato tra l'art. 6 e il 29, essa comincia ad essere attuata, e a determinare i primi effetti. Il primo tra essi è la costituzione, presso tutti gli Atenei d'Italia, di una commissione per la riscrittura degli Statuti. In termini pratici, questo significa mettere al lavoro una quindicina di persone, di livello diciamo "dirigenziale" (quanto meno si osa sperarlo) per all'incirca un centinaio di Atenei; prescindendo dalle connesse assemblee, consigli di Facoltà e di Dipartimento, aggregazioni spontanee di protesta, elezioni e votazioni (nei casi più "democratici"...), attività di corredo degli amministrativi ecc. Sarebbe interessante fare una prima stima di quante siano le migliaia e migliaia di ore sottratte alla ricerca. Ma questo forse, paradossalmente, è ancora il meno. Quanto si sta attuando è in larga misura normato nel dettaglio dai primi articoli della legge citata, che determina puntigliosamente in numero e in caratteristiche gli Organi che negli Statuti stessi vanno definiti. In particolare, la legge stabilisce una numerosità minima necessaria di docenti di ruolo per l'esistenza dei Dipartimenti (quaranta per gli Atenei più grandi) e un numero massimo in assoluto per le Facoltà (dodici), che vengono qui rinominate "Scuole". Questo obbliga gli Atenei a procedere ad aggregare assieme i Dipartimenti e le Facoltà attuali, per rispettare i nuovi parametri. Per dare un'idea della pesantezza del processo, esemplifico sul caso del mio Ateneo, Bologna, che conosco bene. Qui le Facoltà attuali sono ventitrè. Anche sfruttando al massimo la soglia consentita (cosa che peraltro non pare l'orientamento attuale) si avrebbero comunque undici Facoltà da far scomparire in qualche modo, aggregandole alle altre. Così degli attuali sessantotto Dipartimenti, ne dovrebbero sopravvivere una quarantina.
Parto allora dal basso, dai Dipartimenti, per svolgere una breve analisi.
Con la  legge 382/80 viene definita la nuova struttura di "Dipartimento", inteso come organizzazione di uno o piu` settori di ricerca omogenei per fini o per metodo e dei relativi insegnamenti anche afferenti a più Facoltà o più corsi di laurea della stessa Facoltà. Il Dipartimento nasce dunque con l'intento, poi completamente realizzato, di sostituirsi alla precedente struttura di "Istituto". La differenza saliente risiede nel fatto che mentre il precedente Istituto si colloca all'interno di una Facoltà, e ne costituisce quindi a tutti gli effetti una parte propria, il Dipartimento nasce già all'origine come trasversale alle Facoltà nello stesso momento costitutivo (art. 82). L'intento del Legislatore appare evidentemente quello di far prevalere l'aspetto della coesione sul piano scientifico ad ogni considerazione di tipo amministrativo. E' infatti senza dubbio più complesso il modello organizzativo che ne deriva, posto che con gli Istituti si ha una partizione ad albero ben determinata, mentre il Dipartimento, con più forte autonomia anche amministrativa, taglia orizzontalmente più Facoltà. L'
ubi consistam del Dipartimento, la sua stessa ragion d'essere, si sostanzia quindi nella "omogeneità di fini e di metodi" della ricerca. Tanto sul piano normativo che su quello della prassi accademica, risulta dunque evidente la competenza dei Dipartimenti sul piano scientifico, e quella dei Corsi di Studi e in ultima istanza delle Facoltà sul piano didattico; ferma restando la inevitabile interrelazione fra i due piani portanti della attività accademica.
La valutazione di quale sia l'opportuno livello di omogeneità richiesto all'interno di una struttura Dipartimentale è questione di estrema complessità, e si presenta per sua natura in assoluto irresolubile, stante la sua diretta dipendenza da questioni epistemologiche del tutto generali: la questione della "gerarchia delle scienze" ha tenuto occupati gli epistemologi dai tempi dei Secondi Analitici di Aristotele, e senza dubbio non si profila all'orizzonte una soluzione univoca e condivisa. E tuttavia, senza regredire ai "massimi problemi", dobbiamo pure prendere atto della inarrestabile tendenza del progresso scientifico verso una sempre più spinta specializzazione della ricerca. Già Federigo Enriques si rifiutava di declinare al singolare le scienze "matematiche", molte essendo ed irriducibili le competenze coinvolte. E se questo vale per le discipline a tradizione millenaria, con uno statuto quindi ampiamente dibattuto, se pure non risolto, dagli stessi specialisti, vale a maggior ragione per le così dette, nel gergo positivistico, "scienze bambine". A fronte di tale processo, che in qualche modo si assesta come superamento dell'ideale enciclopedistico dell'illuminismo, processo che si fa esplosivo dalla seconda metà del secolo scorso, ecco che la specializzazione diviene sempre più spinta, al punto da creare comparti sempre più differenziati entro le discipline. Oggi dire di una persona che è uno studioso di medicina, o di matematica, non significa quasi niente per gli addetti ai lavori. Avviene così che anche all'interno dei Dipartimenti si determinano settori di ricerca, o settori culturali, che ben poco hanno a condividere fra di loro, se non la dipendenza da un sapere comune precedente. Entro questo panorama, il perseguire l'eccellenza nella ricerca, o, se si vuole, la ragione teoretica, consiglierebbe una sempre maggiore segmentazione del sapere in strutture sempre più puntuali, in sintonia con l'assunto ottimistico di un costante incremento della conoscenza, e di una conseguente necessità di localizzarla per renderla dominabile. Da un'altra parte si riscontra tuttavia la spinta opposta, l'istanza della ragione pratica, della razionalizzazione per accorpamento, in funzione di ipotizzate economie di scala. Se debba prevalere l'istanza culturale su quella amministrativa, o viceversa, è questione neanche da porre nel momento presente. Ma quanto meno quella via che si presenta come strada obbligata dovrebbe essere percorsa nel minore attrito possibile rispetto all'altra.
Il processo di aggregazioni spontanee che si sta delineando negli Atenei italiani appare al momento slegato rispetto ad un qualsiasi progetto architetturale complessivo, e non viene posto in alcuna relazione con la definizione delle così dette Scuole, ossia con la concomitante aggregazione delle Facoltà. Esso non può naturalmente improntarsi ad alcun criterio scientifico o contenutistico, essendo la sua esistenza normata per legge sulla base dei criteri puramente numerici sopra ricordati. In questa situazione le aggregazioni Dipartimentali appaiono fondarsi su valutazioni quantitativo/numerologiche, ovvero per semplice aggiunzione addittiva, senza la precondizione di una identità culturale, o, nel migliore dei casi, procedendo ad immersione delle competenze per supposta similitudine di saperi ancestrali. E si tace per scelta sull'ipotesi di spinte all'accorpamento fondate su ragioni ancor meno nobili.
Sul piano concreto, posto che con la nuova legge 240/10 il Dipartimento si impone come il luogo d'elezione entro cui si situano processi vitali per l'attività accademica quali il reclutamento e la valutazione della ricerca, una aggregazione forzosa o comunque non solidamente fondata sopra un disegno culturale coerente porta inevitabilmente a conseguenze devastanti. Ad unico esempio si ponga mente al punto cruciale della comparazione dei risultati della ricerca: se già oggi è assai complesso, entro certi Dipartimenti più prossimi alla ricerca di base pervenire ad una qualche scala di valori condivisa, che cosa può accadere a valle di un matrimonio coatto?
Allora forse è bene convincersi che un qualche modello culturale, per quanto in sè discutibile, è comunque meglio dell'aggiunzione per accorpamento meccanico di persone e di idee trattate nella loro semplice datità antitipica, ossia come pura esistenza resistente. E' già estremamente problematico, allo stato attuale, stabilire se sia più degno di onori lo studioso di integrali indefiniti o di teoria dei numeri; ma che sarà domani, quando si dovrà comparare, poniamo, l'analisi infinitesimale con la teoria della valenza?
Al di là di ogni considerazione teoretica, per onestà intellettuale rispetto ai nostri giovani, non possiamo esimerci da una profonda riflessione nel merito. Dalla cultura mitteleuropea dell'ottocento abbiamo appreso quale ruolo, nei fenomeni superiori di coscienza, giochi il principio dell'olismo, per il quale la totalità eccede di gran lunga la somma aritmetica delle parti: come la melodia, che non è una somma di note. O come l'aggregazione di una carrozzeria, di un telaio, di un allestimento, di quattro ruote e di un motore, che non è ancora un'automobile. O come in mille modi ancora insegna la Gestaltpsychologie.
La conclusione che va tratta è che i guasti in corso di produzione, e in larga misura inevitabili, stante la legge, anche quando i vertici accademici non li aggravino con ulteriori atteggiamenti di chiusura, condizioneranno in modo fortemente negativo e limitativo i tratti salienti della vita accademica, e cioè gli spazi di autonomia e di ricerca, e il reclutamento dei giovani. Certo investire migliaia di ore dei ricercatori in funzione di una riscrittura degli Statuti di cui ben pochi sentivano l'urgenza, sottraendo queste risorse alla ricerca e alla didattica, è un danno grave; ma è un danno preciso, quantificabile e circoscritto. Ma l'altro tipo di guasto che si è descritto sopra avrà effetti imperituri, ossia perduranti indefinitamente, fino a che una nuova e più oculata normativa potrà subentrare a ricomporre un modello coerente. E questo conto, purtroppo, non lo possiamo fare neache volendo, perché esso verrà presentato alle generazioni future.